Intervento di Mons. Luigi Giussani al X Pellegrinaggio

Sabato 20 giugno – Stadio Helvia Recina Macerata

E’ con grande timidezza che accetto di rendere questa testimonianza. Ho accettato l’invito di Don Giancarlo perché fosse come una preghiera alla Madonna, che abbia pietà di tutta l’incoerenza che nella mia vita c’è, nonostante la grande abbondanza di luce e di letizia di cui il Signore l’ha riempita; ma la parola incoerenza mi richiama la preghiera che Sua Santità ha pronunciato iniziando l’Anno Mariano. Il Papa ha detto: ecco, alla fine di un millennio, l’uomo, guardando quello che ha fatto, resta come smarrito perché quello che di più ha desiderato, quello che più ha conclamato come suo traguardo, come suo scopo, non è stato raggiunto. Alla fine di un millennio l’uomo si trova povero ed in fondo indifeso, nonostante tutti gli orpelli delle sue costruzioni, che stanno come cose che lasciano il suo animo ed il suo cuore ancora confuso ed infelice. Alla fine di un millennio, e alla fine di un secolo, osserva il Papa. E’ la stessa cosa. Il secolo alla sua fine vediamo che non ha spostato nella capacità umana quella realizzazione, o quel compimento che il cuore profetava, che i progetti hanno cercato di consumare. Però, ed è proprio il Papa ancora che insiste, non è forse questo l’esito di ogni riflessione alla fine, non di un millennio, non di un secolo, ma di una giornata? La sera, chi, guardando la giornata trascorsa la sente compiuta di fronte all’impeto diciamo ideale, più o meno definito e consapevole, di fronte comunque alle tensioni cariche di desiderio e di esigenza di vero, di giusto, di bello, di bene? Chi, alla fine di una giornata, sente la sua energia umana come artefice riuscito di qualche cosa compiuto?

Allora è soltanto la distrazione solita che impedisce quello che sarebbe, inevitabilmente, delusione. Una delusione di sé l’uomo l’ha nella grande arte, nella grande letteratura, là dove diventa capace di esprimere quello che tutti sentono e vivono inconsapevolmente, non criticamente; invece, arte e letteratura sono capaci di ridirlo, di dirlo, di proclamarlo. Una grande delusione, che riflette quanto dice la Bibbia in quella domanda: “Signore, che è mai l’uomo?”. Eppure sulla delusione non si può costruire, né tanto meno sulla smemoratezza e sulla distrazione. Si può costruire solo su un compimento. Ed infatti il salmo della Bibbia dice: “Che è mai, Signore, l’uomo perché tu te ne rammenti?”. Come Dio si è rammentato di me uomo?

Egli è diventato carne, ha preso dalla Madonna, dice il Papa nella Sua Enciclica Redemptor Hominis, carne e sangue, per cui ha penetrato la nostra realtà più concreta e quotidiana. Io avrei voluto baciare le mani a Sua Eccellenza Mons. Cordes, quando poco fa ha così potentemente definito, nella prima parte del suo discorso, il genio cristiano, il genio di Dio. E’ proprio attraverso gli accadimenti umani che noi viviamo in rapporto con l’Infinito e con il Destino. Ecco perciò che mi permetto dirvi quanto a me fin dalla vostra età, fin dalla mia giovinezza ha colpito, affascinato e spinto, nonostante la mia fragilità, sul cammino cristiano, sul cammino della fede. Innanzitutto, se è attraverso gli accadimenti umani che concretamente l’uomo prende rapporto con l’Infinito, cioè con il suo Destino, allora vuol dire che la banalità è esclusa dalla giornata. Quando ci alziamo al mattino, quando riprendiamo il nostro consueto lavoro, quando riprendiamo i nostri consueti rapporti. E quando avrete la fortuna di andare in Palestina e vi appoggerete al parapetto, che separa dalla piccola stanza dove la Madonna ha abitato, voi penserete con grande impressione: “Come, da qui?”. Da qui tutto. Tutto. Il compimento, perché il compimento, se siamo così fragili e così incoerenti, il compimento è qualcosa che ci è dato. E’ una realtà grande che ci è comunicata e, partendo da essa, allora qualcosa di più noi riusciamo a realizzare, allora noi non ci scoraggiamo. Allora non c’è più un bisogno della smemoratezza per evitare la delusione.

E’ un compimento, un compimento che diventa anche nostro: la Grazia. Grazia la chiama il catechismo: Dio che entra nelle mia carne e nelle mie ossa, nei miei momenti quotidiani e nelle mie relazioni di uomo. Oh, come è grande allora l’uomo, come coscienza. Nessuno può accorgersi di te, puoi essere il più piccolo ed il più disprezzato nel tuo ambiente, ma se tu vivi la coscienza di questo, tu sei grande. Ed io sono rimasto, all’epoca del mio liceo, profondamente impressionato da questo, e mi sono detto: “Veramente questo è divino”. Non c’è niente che possa esaltare l’uomo nel suo nascondimento, l’uomo nella sua routine quotidiana, nella sua apparente banalità più di questo. E questa coscienza fa respirare e dà letizia, perché carica il tempo di speranza; e nulla è più inutile. E non è più necessario qualcosa d’altro perché io abbia ad incominciare il cammino del mio compimento. 

Ma tutto questo non rimane chiuso in me, l’orizzonte della mia coscienza non si blocca in me. Essa ha una responsabilità che porta l’universo, che porta il mondo intero, che porta la realtà tutta degli uomini e delle cose, cioè è attraverso questa stoffa nuova della mia coscienza, in cui Cristo penetra con la Sua luce e la Sua presenza fisica, è attraverso questa stoffa che il grande vestito del mondo muta. Che impressione, allora, ritrovarsi con altri che sentono questo! Piccoli come te, deboli come te, incoerenti, fragili, che ad ogni piè sospinto possono cadere come te, ma insieme c’è il riconoscimento di questa Presenza, insieme c’è il riconoscimento di questa possibilità continua di ripresa che è data per la Grazia, per il compimento che è iniziato. Cristo resusciti in tutti i cuori!

Allora il mondo nuovo, ecco, incomincia dalla compagnia della tua parrocchia. Prima ancora incomincia dalla compagnia della tua famiglia: marito e moglie, genitori e figli. Incomincia dai gruppi delle tue associazioni, incomincia dalla comunità dei tuoi movimenti; incomincia dalla nostra solidarietà nuova, da questa comunione che abolisce l’estraneità tra di noi. E il mondo nuovo incomincia così dalla sua base. E in questo tutto noi siamo chiamati a far rifluire tutte le nostre energie di lavoro e di immaginazione, di lavoro, di arte, di impegno, di affezione. Tutto! Certo! Fino a quell’espressione supremamente operativa della cultura (perché questo è cultura), che si chiama politica. Ed è per questo che ringraziamo la presenza dell'On. Forlani, perché esso rappresenta in questo momento questo nostro estremo limite di interesse. Perché dalla base della nostra vita, della nostra vita consociata, della nostra vita amicale, di questa amicizia nuova, noi vogliamo, preghiamo e cerchiamo che il mondo si cambi. Allora il mondo è con noi dalla mattina quando ci svegliamo e diciamo: “Venga il tuo Regno. Cristo resusciti in tutti i cuori”. E’ con noi quando andiamo a scuola, quando andiamo al lavoro. E’ con noi quando ritorniamo stanchi la sera. E non c’è sosta, non c’è tregua e c’è una grande pace e nulla è violento.

Ma ci sarebbe nel cuore, c’è nel cuore una goccia, come una goccia di pianto. Un solo dolore, il dolore del proprio errore, della propria ho detto prima incoerenza. Di questa fragilità che rimane, pur continuamente contestata. E’ questo l’altro aspetto della testimonianza che vi voglio rendere, perché la pace non deriva dal fatto di una compiutezza di cui siamo capaci, non deriva da conti che tornano, anche morali, anche ideali. Il Signore può far passare la Chiesa dal trionfo di certi momenti grandi del Medioevo alla stanchezza, alla confusione di ora. E l’ha descritta molto bene Sua Eccellenza Mons. Cordes. Quando siamo come il rifiuto dell’umanità, la gloria è misurata dal disegno di Dio. Una cosa a noi interessa per una pace operosa che ci renda capaci di amare noi stessi, di amare ciò che incontriamo e di amare tutto il mondo, non di sognare, ma di volere l’ideale più della vita: il perdono; perché ciò che si è messo nel seno di quella ragazza di quindici anni era il Mistero di Dio che perdonava l’uomo. Perché perdonare, per Dio, vuol dire far rinascere, e, infatti, il compimento del perdono, se la condivisione è stata la Croce Sua, il compimento è nella Risurrezione. Essere perdonati, continuamente perdonati, ma questo dà una voglia di camminare. 

Questi, infatti, sono i poli estremi della educazione, della vita come noi la concepiamo: da una parte, l’intransigenza ideale sarebbe menzogna il tacitarla, il censurarla, da una parte, dunque, l’intransigenza ideale; dall’altra, l’umanità del riconoscimento del proprio essere. E tutto questo che ho detto, si scarica, da una parte, in una aspirazione senza tregua e, dall’altra, in un dolore che rende la prima umile e non violenta, rende la prima paziente; così la nostra vita è un pellegrinaggio.

La concezione della vita che abbiamo è quella di un pellegrinaggio. Homo viator, come dicevano i medievali. L’uomo che cammina, che cadrà anche a terra mille volte al giorno, ma mille volte si rialzerà, perché la speranza poggia su una ragione più grande, sempre più grande della propria debolezza. Così quello che iniziamo ora è un simbolo, il simbolo della vita secondo la nostra coscienza cristiana e su questo simbolo venga la benedizione di sua Eccellenza.