43° Pellegrinaggio Macerata-Loreto Testimonianze

Nel pellegrinaggio riconosciamo il corpo come una soglia sull’infinito

Verso #MacerataLoreto21 - quinta puntata

Pubblichiamo il contributo di un grande amico del Pellegrinaggio Wael Farouk, professore associato di lingua e letteratura araba presso l’Università Cattolica di Milano. A lui abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza del Pellegrinaggio e da cosa è rimasto colpito seguendo la recente visita del Papa in Iraq.

 

Il pellegrinaggio è un uscire. Un uscire dalla limitatezza del nostro mondo, un liberarsi dal familiare e dall’abitudine. È espressione del desiderio di qualcosa di più, espressione della certezza che c’è sempre qualcosa di più. La vita dopo il pellegrinaggio non è più come la vita di prima, perché il pellegrinaggio è anche un uscire dal tempo, un ritorno al passato che permette alle cose semplici della nostra vita quotidiana di riacquistare il loro significato e al passato di rinnovarsi nel presente, attraverso l’incontro e la presenza, ogni anno sempre nuova. 
Quella notte, la mia anima si è mossa sui piedi di decine di migliaia di compagni. Nel pellegrinaggio, il tuo passo non è che una goccia in un fiume che fluisce come le salmodie. Per questo il tuo corpo non ti deluderà, anche se percorri solo poca strada, perché non è lui che ti porta: è quel fiume impetuoso di amore e speranza che porta lui e te insieme. Mentre ti affatichi nel pellegrinaggio, la tua anima resta sospesa fra due tempi, diventa un ponte fra due tempi. E all’improvviso, il corpo limitato si affaccia sull’illimitato. Nel pellegrinaggio riconosciamo il corpo come una soglia sull’infinito. Ecco perché il pellegrinaggio è un uscire per rinnovare la certezza, per rinnovare la speranza. Ecco perché è una fonte di speranza, e così è stato anche il pellegrinaggio del Papa in Iraq.
La visita del Papa è stata la prima occasione in cui tutte le componenti della società irachena si sono unite. Sciiti, sunniti, curdi, cristiani… Tutti si sono riuniti intorno alla figura di Papa Francesco. Ma perché lui ha scelto di visitare l’Iraq, la Giordania, la Palestina, il Marocco, l’Egitto, gli Emirati Arabi? È la stessa domanda che si sono posti anche gli iracheni: perché viene da noi nel bel mezzo della pandemia e degli attacchi terroristici. Perché proprio noi? Un iracheno ha provato a dare una risposta: perché il Papa è il profeta dei feriti e chi è più ferito degli iracheni, popolo dimenticato e assediato da anni? 
Nella sua lettera al popolo iracheno, il Papa ha ribadito di esser venuto in Iraq come pellegrino penitente, a guardar le stesse stelle di Abramo, ma un pellegrino non viaggia portando con sé speranza e benedizione per gli altri, bensì per chiederle. Forse, allora, il Papa ha scelto di visitare l’Iraq e gli altri paesi arabi anche per ricordarci che la chiesa cattolica non è europea e la fede cristiana non è occidentale. Le radici del cristianesimo non sono appese al cielo, ma ben piantate in una terra che ha una lunga storia e un presente pesante, fatto di dolore, sofferenza e testimonianza che ha mantenuto e continua a mantenere viva questa fede da duemila anni.
La visita del Papa in Iraq è stata come una Pasqua per i martiri cristiani iracheni, la resurrezione della loro testimonianza dall’oblio. Con la sua visita, il Papa ha scritto per loro una storia nuova, non più mossa dal terrore per l’assassino, ma dalla speranza, incarnata dalla testimonianza delle vittime che, al tempo del dubbio e del nichilismo, hanno scelto di lasciare ogni cosa dietro di sé in nome della loro fede, in nome di ciò che dà significato alla loro vita e trasforma la loro morte in gloria.
Il Papa non fa diplomazia né dialogo, ma una cosa molto più semplice, seppur fondamentale: riempire il vuoto in cui possono crescere odio e pregiudizio. Ha riempito questo vuoto nello spazio pubblico e nei cuori altrui, nei cuori degli arabi e dei musulmani. Non fa dialogo astratto, lo porta dentro la vita quotidiana delle persone comuni. Fa questo semplicemente con la presenza: lui non dialoga, è presente. Ha messo fine al dialogo fra stereotipi, che è ancor più pericoloso dello scontro fra stereotipi.
Non c’è da stupirsi, quindi, che il Papa scriva, nell’enciclica Fratelli tutti, che è stata ispirata dall’incontro con il Grande Imam di al-Azhar. Né c’è da stupirsi che il Grande Imam, un giorno, abbia chiesto a un gruppo di musulmani riuniti nel suo ufficio, tra i quali il sottoscritto, di pregare per il pontefice. 
Il Papa, con la sua presenza, ha trasformato il dialogo da un’illusoria comunione nella fede a una reale comunione nella vita.